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La paura di parlare in pubblico

Parlare in pubblico. Xanax: sempre sia lodato.

Ma cos'è che fondamentalmente ci preoccupa? Cos'è che tanto ci destabilizza? Le risposte: tanto nebulose quanto imperscrutabili nella loro insondabilità.

All'avvicinarsi di una presentazione in pubblico, nella nostra mente iniziano a stagliarsi tra i più apocalittici degli scenari: incespicare su qualche gradino, inciampare su qualche sillaba, fare una gaffe che il principe Carlo d'Inghilterra in confronto è un dilettante...

Da voiceover talent, ossia da "voce per i media" (per non cedere alla diffusa anglofilia), sono abituato a parlare nel chiuso di una cabina di registrazione, insonorizzata, lontana dal mondo, vivendo una forma rassicurante di eremitaggio; rassicurante nella misura in cui contempla la possibilità dell'errore: se sbaglio, reincido. Facile, no?

Qualche anno fa la fondazione de "Il Vittoriale degli Italiani" promosse un concorso consistente nell'inviare, in formato video, la declamazione di una poesia prevista nel bando e una a piacere. Ho scelto, tra le due, la "Sera fiesolana" di Gabriele d'Annunzio. Dopo aver espletato le formalità dell'iscrizione, con tanto di modulistica e liberatoria così come si conviene, feci cadere la cosa nel dimenticatoio.

Un breve trascorrere di settimane e poi l'inaspettata comunicazione della segreteria: "Lei è tra i 10 finalisti".

Panico! Essere scelto è stato certo un privilegio ma c'era un piccolo particolare che avrei dovuto preventivare: declamare in pubblico.

Una cosa è declamare davanti al proprio insegnante di recitazione, un'altra è farlo al cospetto di un pubblico e di una giuria (tra cui il presidente della fondazione, Giordano Bruno Guerri e uno dei più grandi poeti contemporanei, Valerio Magrelli).

Una volta arrivato a Gardone (Brescia) iniziai a sentire lo stillicidio delle ore, lo sgocciolio venefico dei minuti, il lento rimestarsi dell'ansia. Avevo poco tempo prima di guadagnare il proscenio, avevo bisogno di invertire la dinamica di autocorrosione che mi stava divorando. Così ho intavolato un discorso interiore, sulla scorta dei benefici soliloqui dell'imperatore Marco Aurelio (121-180 d.C.), la cui opera "Colloqui con me stesso" è uno dei capisaldi dello stoicismo.

E così mi dissi: "Sei stato scelto, tra i finalisti ci sono attori che vengono dall'Accademia di Arte Drammatica, ce ne sono due o tre bravissimi, hai un tuo perché, sei nell'ultima dimora di chi disse ricordati di osare sempre, rendi omaggio a lui, dai qualcosa al pubblico".

La presentatrice scandisce il mio nome. I passi mi portano verso la luce con sorvegliata risolutezza.

Spiccico parola, sento la mia voce risuonare d'intorno, contornata da un silenzio attento.

La declamazione va avanti senza intoppi, suscita scroscianti applausi tra il pubblico convenuto al laghetto delle Danze.

Tutto va bene.

Chi ha vinto? La vittoria è andata a un'attrice di Salò di lungo corso, dal timbro scuro e vibrante, al servizio di una pregnante capacità evocativa.

La mia vittoria è stata un'altra: superare i miei limiti.

Cosa voglio condividere di questa esperienza? I pensieri vanno per conto loro, seguono una loro rotta ma, essendo noi umani e quindi non condannati a subire lo svolgersi della matassa interiore degli impulsi, possiamo coscientemente dirigerli, ammaestrarli, ammansirli, dare loro una nuova direzione.

Prima di una grande prova chiediamoci: cosa possiamo dare al mondo? Perché siamo speciali?

Guardare la meta, non gli ostacoli. D'altronde "chi non ha una meta, non ha mai il vento a favore" (Seneca)

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